Soren Kierkegaard – Diario – finitezza ed infinitezza

Come ho detto, per le decisioni della finitezza bisogna essere costretti – per quelle della infinitezza, è proprio il desiderio della libertà l’arrischiarvisi e soltanto con la libertà si entra nella decisione della infinitezza. Questo i più non lo capiscono, perché son costretti ad arrischiarsi nelle decisioni della finitezza – e l’infinitezza non la conoscono affatto. Con me succede il contrario. Io mio sono arrischiato nella vita, ferito da una incrinatura originaria: proprio per lo sforzo immenso di mantenere a galla con le pompe l a mia esistenza, ho sviluppato un esistenza spirituale eminente. Ci sono riuscito. Ho inteso questo mio tormento come il suo pungolo nella carne e ne o conosciuto l’eccellenza dal dolore del pungolo e il dolore del pungolo dell’eccellenza. Così ho capito me stesso. Altrimenti sarei corso un po ai ripari. Per questo in un certo senso gli uomini mi disgustano; le loro sofferenze sono così insignificanti! Non hanno nemmeno il sospetto del tormento vero e come esso cresce appunto in relazione all’eminenza delle doti che uno ha.

Se non avessi avuto di che vivere, sarei anch’io stato costretto a porre qualche riparo. E forse ci sarei riuscito. Ma perché io sono libero come lo ero, e perché ero dubbio, come mi disse io sono libero come lo ero , e perché era dubbio, come mi disse il mio medico (e dubbio appunto perché io non ero costretto), cosa potesse uscire fuori dalla riparazione, allora ho scelto bene. Essere costretti è in questo casi l’unica cosa che aiuta, perché l’infinitezza è una potenza troppo grande per essere applicata a simile cosa.

Paolo parla di essere άφορισμένος [Rom. 1, 1]: ecco, io lo sono stato fin dalla prima infanzia. Il mio tormento era anzitutto la stessa sofferenza, e pensare poi che si dovesse sempre considerare come orgoglio ciò che non era che sofferenza e miseria! Ero come quel lord che il povero bracciante invidiava, fino a quando non vide che era senza gambe. Si sono ammirate le mie doti onde per questo si voleva che fossi più socievole coi miei simili, ecc.: poiché non volli, si pensò che era orgoglio da parte mia e perciò si dice che ora tutto mi sta bene. Ahimè, e non si trattava in realtà che di sofferenza e tormento tali da dar di volta al cervello in mezz’anno a chiunque. Ma si crede che sia orgoglio e perciò stavo per dire, si spera e si aspetta ch’io finisca al manicomio. Ahimè, l’unica mia salvezza è proprio che non si tratta di orgoglio ma di sofferenza.

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