La Gioia di pensare che si soffre una volta sola ma che si trionfa l’eternità!

Chi vuole raggiungere un fine, ne stabilisce anche i mezzi; ciò presuppone, naturalmente, che si sappia anche che cosa so vuole. Ciò ammesso, intratteniamo l’interessato sui <<mezzi>>. Dicendogli: <<Allora, tu devi volere anche i mezzi>>. Qualche volta, forse, è necessario salire più in alto e dire: <<Quando si vuole una cosa, si deve anzitutto sapere che cosa si vuole, e rendersene conto in modo preciso>>. L’impaziente, poiché è desideroso di raggiungere subito il fine: considera la ricerca dei mezzi da usare come un ritardo spaventoso; gli fa l’impressione di una lentezza mortale il dover partire da tanto lontano: <<Chi vuole una cosa deve sapere che cosa vuole e rendersene conto in modo preciso>>.

Così è per il discorso edificante che ha per scopo di edificare. Forse taluni desiderano esserlo soltanto in modo vago; se non avessero fretta di comprendere ciò che vogliono o di ascoltarne la spiegazione, esiterebbero e si dispenserebbero perfino molto volentieri dell’edificazione. Simili disprezzanti atteggiamenti non sono rari nella vita. Un uomo brama con ardore, passione perfino con caparbietà una cosa di cui ignora la natura e che può essere, purtroppo proprio il contrario di ciò che crede. Lo stesso avviene per ciò che stimola alla virtù che, veramente un bene in sè, esige che l’uomo desideroso di edificazione sia bene informato per evitare di desiderare, in una smemorataggine frivola e mondana, di prendere così l’edificazione in vano e di rifiutarsi a più ampie informazioni.

Che cos’è infatti l’edificante? Anzitutto, è un motivo di spavento, perché si rivolge non a chi sta bene, ma a chi + ammalato, non a chi è robusto, ma a chi debole; ma dove essere anzitutto un motivo di spavento anche per l’uomo sano e vigoroso. L’ammalato si sottomette con naturalezza alle prescrizioni del medico, ma un uomo in piena salute considererebbe con spavento l’eventualità di cadere fra le mani di un medico che lo trattasse senz’altro come un ammalato. Così avviene per l’edificante che è essenzialmente un motivo di spavento: per chi non ha il cuore contrito, esso incomincia col provocare uno scoramento. Dove non c’è nulla che spaventi, non c’è nulla di edificante: dove non c’è spavento, non c’é neanche edificazione. C’è un perdono del peccato che  edificante, e il motivo di spavento è peccato che è edificante, e il motivo di spavento è il peccato; e, nella coscienza profonda della colpa, la grandezza dello spavento è proporzionata alla grandezza della edificazione. C’è un rimedio a tutti i mali, una vittoria in tutti i combattimenti, una salvezza in ogni pericolo che sono edificanti; il motivo di spavento, è la presenza del dolore, del combattimento, del pericolo; e la grandezza del motivo di spavento e dello spavento stesso è in proporzione all’edificante e alla edificazione.

Questo è il profondo significato di ciò ce edifica. Nella scoperta dell’edificante avviene come nella perforazione dei pozzi artesiani dove è necessario scavare profondamente; ma anche allora più si scende più lo zampillo schizza in alto. Bisogna incominciare con l’individuare esattamente il motivo di spavento che è per l’edificante ciò che è la bacchetta del rabdomante rispetto allo zampillare della sorgente; quando la bacchetta oscilla, essa ha trovato una sorgente nel sottosuolo; è la dove si trova il motivo di spavento, l’edificante il punto in cui deve essere ricercato il motivo di spavento e su di esso si insiste, si trova l’edificante.

Così l’edificante è sicuro di sè e degno di fiducia! Non si deve temere lo spavento che esso suscita, come se fosse di ostacolo all’edificazione, nè con viltà lo si deve tenere in disparte, sperando in tal modo, di poter rendere l’edificazione tanto più piacevole; perché in questo caso l’edificazione scompare con lo spavento. L’edificante è così perentorio che, quanto nello spavento. L’edificante è così perentorio che, quanto potrebbe sembrare a prima vista il suo nemico, ne diventa la condizione preliminare, il servitore e l’amico. Come in farmacia, il chimico riesce a superare la difficoltà di trasformare il veleno in un rimedio, così nell’edificante, lo spavento viene trasformato, in maniera ancora più stupenda, nell’edificazione.

La stessa cosa avviene per il tema di questo discorso: si soffre una sola volta. E’ una frase presto detta; il mondo la ripete spesso in un modo che rasenta la leggerezza: <<Godì la vita, si vive una volta sola>>. Ma chi intende scoprire l’edificante, bisogna che cominci con l’individuare il motivo di spavento e avere in tal modo tutto il tempo per comprendere che questa frase cela la più opprimente concezione della vita. Si soffre una volta sola, si dice analogamente di un uomo che è stato ammalato una volta nella sua vita; una volta sola, perché non si intende dire che è stato un malato per tutta la vita. E’ a questo punto che, in sostanza, inizia la edificazione. Ma la saggezza, l’impazienza e l’inquietudine terrene, che cercano la guarigione secondo il mondo, non devono pretendere, sarebbe assurdo, che si parli loro per edificarli quando si tratta del cristianesimo. Perché l’ordine cristiano incomincia nel punto in cui l’impazienza umana, qualunque sia la sofferenza reale di cui essa si può lamentare, vedrebbe questa sofferenza assumere infinite proporzioni, a causa della consolazione che diventa motivo di disperazione; perché, per il mondo, la consolazione cristiana di disperazione; perché, per il mondo, la consolazione cristiana è motivo di disperazione molto più della più pesante sofferenza terrena e della più grande disgrazia temporale. E’ a questo punto che incomincia l’edificazione cristiana, così detta dopo Colui che è nostro Signore e nostro Salvatore; perché anche egli ha sofferto una volta sola, ma tutta la vita fu una sofferenza. Parleremo dunque della gioia di pensare che si soffre una volta sola, ma che si trionfa eternamente.

 

Si soffre una volta sola, ma il trionfo è eterno. Quindi, non si trionfa anche una volta sola? Certamente. Tuttavia, c’è una differenza infinita: la sola volta della sofferenza è l’istante, ma la sola volta del trionfo è l’eternità, la sola volta della volta della sofferenza, una volta passata, non è quindi nessuna volta, e ugualmente, ma in un altro senso, la sola volta del trionfo, poiché essa non è mai passata; la sola volta del trionfo è un trionfo che dura eternamente; la sola volta del trionfo è un trionfo che dura eternamente.

LA sola volta della sofferenza è l’istante: si soffre una volta sola. Anche se la sofferenza dura settant’anni, essa non è una volta sola; e se questa sola volta è settanta volte sette, essa non è, tuttavia, che una volta sola. Perché la stessa temporalità nel suo insieme è l’istante; nei confronti dell’eternità, essa è l’istante che, in confronto all’eternità, non è che una sola volta. E’ vano lo sforzo della temporalità che cerca di darsi un’importanza, di contare gli istinti, di addizionarli: quando l’eterno dispone, essa non perviene che a questa sola volta e non la supera mai; perché l’eternità è il contrario, non di un istante particolare nella temporalità (ciò che non ha senso), ma della temporalità tutta intera e, con tutte le forze dell’eternità, essa impedisce che la temporalità diventi di più. Come Dio ha detto alle acque: <<Fin qui e non più lontano>>, così anche l’eternità ha detto alla temporalità: <<Fin qui e non più lontano; per quanto continui ad essere, tu sei l’istante, né più né meno; io l’eternità, me ne rendo garante, oppure, io, l’eternità, vi ti costringo>>. Come la pianta parassita, nonostante tutti i suoi sforzi per ramificare, e per quanto riesca a protendere i suoi viluppi sul terreno, non progredisce affatto in altezza, così la temporalità, per quanto duri, non diventa più dell’istante e dell’unica volta – quando lo dispone l’eterno. Anche il giovane all’inizio della vita, come il vecchio ormai al termine del suo cammino e con gli occhi rivolti al passato, può dire fondatamente: si soffre una volta sola. E lo dice con lo stesso diritto, in virtù dell’eterno, ma in un modo non ugualmente veritiero, benché l’affermazione sia ugualmente veritiera. Perché se il giovane afferma ciò che è vero, il vecchio lo ha verificato, ha reso vero ciò che è eternamente vero. A questo si riduce la differenza così trascurata ai nostri giorni dove,  a furia di provare, si è completamente dimenticato che il massimo potere di un uomo consiste nel rendere vera una verità eterna, nel rendere vera la verità di una cosa compiendola, nell’essere stesso la prova, grazie a una vita che potrà forse anche convincere altri uomini. Cristo si è mai preoccupato di provare questa o quella verità, o di provare la verità? No, ma egli ha reso la verità vera, o ha testimoniato veramente di essere la verità

Si soffre una volta sola. Ma come la pianta parassita che striscia rasoterra a chi la osserva dà costantemente l’impressione di salire verso l’alto quando incontra un oggetto al quale si avvinghia per salire in un modo falso, così anche la temporalità, quando nel suo procedere carponi trova un appoggio cui aggrapparsi, cerca di elevarsi e di essere falsamente qualche cosa grazie ad un appoggio esterno. A un appoggio esterno? No, perché se essa riuscisse anche a diventare qualche cosa, lo diventerebbe grazie all’aiuto dell’uomo, e per disgrazia di costui. Quando l’uomo non trae la sua forza dall’eterno, quando non si allea con l’eterno per reprimere, per frenare la temporalità, questa lo priva della sua forza, diventa il mostro della sua impazienza, della sua disperazione, e può anche provocare la sua perdita. L’orgoglio percuote il proprio padrone, ma la temporalità è altrettanto inquieta; essa diventa qualche cosa sottraendo la forza dell’eternità all’uomo nel quale si inserisce, in compenso, per farlo suo schiavo. Allora, purtroppo, l’uomo impara molto dall’istante; le cifre dei suoi calcoli diventano sempre più enormi, e tuta questa operazione, quando l’eternità dispone, non significa altro che uno. Allora un giorno di sofferenza diventa lungo, un mese, terribilmente lungo, un anno mortalmente lungo, insopportabile, disperante: allora si può ricordare la tal volta, la tal’altra, e la tal’altra ancora, e finalmente le tante volte che nessuno non sa più dove è l’inizio e dove la fine di tutte queste queste volte della sofferenza. Il padrone della vigna aveva ragione quando, secondo l’accordo convenuto, fece pagare lo stesso salario agli operai, benché fossero stati chiamati ad ore diverse; aveva ragione, nel senso eterno. Perché, da questo punto di vista, gli operai avevano lavorato una sola volta. Gli operai che gridavano all’ingiustizia dovevano dunque aver imparato dalla temporalità una cosa che non è vera dal punto di vista dell’eternità: quella la loro colpa; essi, avevano torto, non il padrone e l’eternità per il quale la differenza di tempo non esiste, per il quale la temporalità non è che la sola volta, e il salario identico, non è che l’eterno. Per questo nessuno aveva diritto di lamentarsi; perché nei riguardi dell’eterno, un solo accordo è possibile, l’accordo uguale per tutti gli uomini; e quando si tratta di ricevere il salario della eternità, chi è stato chiamato alla terza ora non ha lavorato di più di chi è stato chiamato all’ora undicesima.

Tu che non puoi dormire a causa delle sofferenze, tutte le sere sento coloro che vanno in giro per la città gridando: <<Attenzione alle luci e al fuoco>>; forse, qualche volta, sentirai anche questo grido: <<Impiegate bene il tempo>>. Preferirei dirti, come dico a me; bada sopratutto di usare della temporalità con una prudenza ancora maggiore di quella che hai per il lume e per il fuoco, affinché essa non diventi mai per te più della sola volta! Non iniziare mai il terribile calcolo del quale nessuno mai, fra coloro che lo hanno intrapreso, nè è venuto a capo, nel quale si contano i momenti e le volte! Abbia cura soltanto di ridurre sempre la frazione grazie all’eterno in cui tuti i momenti si perdono in modo così perfetto che si non costituiscono nient’altro che una sola volta! Non privarti mai di questa edificante consolazione: <<si soffre una volta sola>>; cerca, grazie ad essa, – cioè, grazie all’eterno – di non giungere a soffrire più di una sola volta! Infatti, fin che si tratta di una volta sola, l’uomo può sopportarla, ma se deve soffrire anche solo due volte, ecco già sopraggiungere l’impazienza. Non è così, forse? E’ proprio l’impazienza che egli ha insegnato che egli soffre una  volta sola. Quando, dunque, cade la sera, dimentica la sua sofferenza, affinché il giorno dopo, quando la stessa sofferenza riprenderà, tu non abbia a soffrire tuttavia che una volta sola! E quando l’anno di sofferenza è passato, dimenticalo affinché l’anno nuovo, quando incomincerà la stessa sofferenza, tu non abbia tuttavia a soffrire che una volta sola! Infine, nella tua ora estrema, dimentica questa vita di sofferenza – allora, in verità, essa è dimenticata questa vita di sofferenza -allora, in verità, essa è dimenticata e tu hai sofferto una volta! Chiunque tu sia, anche se ti senti – come un animale prigioniero nella sua gabbia – pesantemente incatenato ei limiti di tutta una vita di sofferenza, comportati come quell’animale che pure fa ogni giorno il giro della prigione, misurando la lunghezza della sua catena, pensandola morte e all’eternità; allora ti sentirai felice di vivere! Soffri con pazienza; ma tutto, assolutamente tutto ciò che si può dire della pazienza nella sofferenza è esattamente ed essenzialmente contenuto in questa sola frase: lascia che l’eternità ti soccorra affinché tu abbia a soffrire una volta sola.

 

La sola volta della sofferenza è nessuna volta. Il proverbio dice: una volta non conta. Non so se è vero per le cose cui si applica questo proverbio, nel qual caso, forse, è falso; perché un proverbio non una verità eterna e non riguarda che le cose temporali. Ma è eternamente certo, e mai appare in un modo così lampante e categorico che una volta non conta se non nel rapporto fra la temporalità e l’eternità. Che cosa sono settant’anni in confronto all’eternità? E nell’eternità sarà evidente che tutta questa sofferenza, questa sola volta non conta. Nulla permetterà di vedere nelle anime glorificate che esse hanno sofferto, né quali sofferenze hanno sopportato non lo si vedrà in nulla; tutte le lacrime saranno asciugate dai loro occhi ridenti di gioia; ogni aspirazione sarà appagata nel cuore che, ormai nella felicità, possiede tutto e lo possiede – oh, felice possesso e saldamente assicurato, là dove nulla gli può rapire la sua gioia, là dove i santi esclamano nella felicità: una volta non conta!

La sola volta della sofferenza è un passaggio, una transizione. Devi attraversare questo passaggio; anche se dura per tutta la vita, anche se è crudele come la spada che ti   cuore, esso non è altro che un passaggio. Non è la sofferenza che passa attraverso di te, ma sei tu che passi attraversi la sofferenza, indenne, dal punto di vista eterno. Nella temporalità, e, da questo punto di vista, la sofferenza sembra terribile, una illusione ti fa credere che essa ti trapassa e ti annienta, mentre sei tu che la attraversi. Si tratta di una illusione. Qui avviene come in un dramma in cui un attore ne uccide un altro; a volerci credere, sembra che lo trapassi, ma tutti sappiamo che non è vero e che non gli torce un solo capello. Eppure, quell’attore non torna a casa sua e Daniele non esce dalla fossa dei leoni e i te intendenti di Nabucodonosor non entrarono nella fornace più indenni di quanto l’anima di un credente non entri indenne nell’eternità, intatta di ogni sofferenza della temporalità, intatta della morte. Perché ogni sofferenza della temporalità è una fantasmagoria e la morte stessa, dal punto di vista della eternità, è una commediante! Come i tarli e la ruggine non possono rodere il tesoro dell’eternità (che cosa esiste di più impossibile?) e nessun ladro lo può rubare, così tutta la sofferenza della temporalità, per quanto a lungo possa durare, non può in modo assoluto ledere l’anima. La malattia, la privazione e la miseria sono impotenti, per quanto esse, del resto, consumino, come lo sono la calunnia, gli insulti, le offese, le persecuzioni per quanto anch’essi possano incidere, del resto; la morte stessa vi è importante!

La sola volta della sofferenza è una passaggio che non lascia nessuna traccia sull’anima o, cosa ancora più stupenda, essa è un passaggio in cui l’anima si purifica, così che la purezza diventa l’orma lasciata da questo passaggio. Perché l’anima si purifica nelle sofferenze come loro nel fuoco. Ma il fuoco che cosa toglie all’oro? E’ strano parlare di perdita quando l’oro, nel fuoco, viene privato di tutto quanto ha di più vile: è più esatto, invece, parlare di profitto. Così avviene di ogni sofferenza temporale, tanto della più crudele come della più insistente; impotente in se stessa, non può prendere nulla; ma se chi soffre lascia che sia l’eternità a disporre, la sofferenza toglie l’impurità, cioè dona la purezza.

Il peccato è la corruzione dell’uomo. Soltanto la ruggine del peccato può rendere l’anima, o corromperla eternamente. Perché è notevole – già il candido saggio dell’antichità, Socrate, nè traeva la prova della immortalità dell’anima – che non avvenga per la malattia dell’anima (il peccato) come per quella del corpo, la quale uccide il corpo. Il peccato non è affatto un passaggio che si deve attraversare una volta, perché, al contrario, vi si deve ritornare; il peccato non è l’istante, è un’eterna diminuzione, un eterno calo dell’eterno; per cui non è una sola volta, ed è di conseguenza impossibile che l’una delle sue volta non abbia a contare. No. Come un abisso vertiginoso separava il ricco immerso nell’inferno da Lazzaro posto nel seno di Abramo, così una differenza vertiginosa separa la sofferenza e il peccato. Non lasciamoci turbare, rischiando di rendere meno franco il nostro discorso sulla sofferenza, parlando anche del peccato, e di rendere questo discorso meno franco, contaminato di temeraria impudenza, parlando in tal modo del peccato. Perché è caratteristica essenziale del cristianesimo non tollerare assolutamente che si chiami male ora una cosa ora un’altra, in un modo da creare confusione. Il cristianesimo consiste esattamente nel parlare della sofferenza della temporalità con sempre maggiore franchezza e gioia vittoriosa, poiché per esso il peccato è solo peccato, la corruzione.

 

Si soffre una volta sola, ma si trionfa eternamente. Mi sia consentito di rendere accessibile questa differenza. Sopra l’altare di una chiesa del nostro paese, un quadro rappresenta un angelo che porge al Cristo il calice della sofferenza. Se guardi quella immagine ne ricavi l’impressione voluta dall’artista, ti perdi in questa impressione, perché è veramente in quel modo che egli venne offerto il calice della sofferenza. Ma se rimani per una giornata intera vicino all’altare in contemplazione del quadro, o se lo contempli ogni domenica per anni ed anni, allora, nonostante tutto il trasporto con cui puoi anni ed anni, allora, nonostante tutto il trasporto  con cui tutto si trasforma ai tuoi occhi; il quadro, in qualche modo, assume un altro aspetto a tu dici a te stesso:  <<No, tutto questo non è durato tanto a lungo; l’angelo non si è soffermato tanto a lungo ad offrirgli il calice, Gesù l’ha preso volontariamente dalla mano dell’angelo, o con obbedienza dalla mano di Dio; l’ha vuotato perché ha sofferto, ha sofferto una volta, ma trionfa eternamente>>! Ora immagina, invece, Cristo nel momento del suo trionfo. Se un artista potesse raffigurarlo, si potrebbe restare a lungo davanti a quel quadro, contemplando devotamente ogni domenica, ma non verrebbe mai il giorno in cui uno potrebbe dire: <<Ciò dura da troppo, ormai; non finisce più>>. No, grazie a Dio, la felicità eterna dipende precisamente dal fato che il suo trionfo non ha mai fine! Tuttavia, il suo trionfo non è che una sola volta…

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